Ponterosso nella memoria dei cittadini jugoslavi

Pubblichiamo una parte del testo che Melita Richter ha letto il 12 ottobre 2013 da ZimmerFrei in occasione di Presidio Ponterosso / Memorie

 

– È tutto qui?

Mi chiese, attraversando la piazza Ponterosso, una giovane artista del Centro d’Arte Contemporanea di Sarajevo arrivata in città in occasione della mostra Miraz (Dote), la scorsa estate. Per lei Ponterosso è stato un mito tramandato da generazioni di donne: madre, zie, nonne, vicine di casa… e vedendo ora la piazza ridotta alle misere due sfere d’asfalto occupate dalle macchine parcheggiate e dalle poche bancarelle rimaste, non riusciva a capacitarsi che questo luogo potesse essere quel mitico Ponterosso di cui si serba ancora memoria a Sarajevo. E non soltanto in questa città chiave dello scosso scacchiere balcanico. Posso testimoniare in prima persona che ovunque viaggiassi in questi anni postbellici che hanno visto sensibilmente ridotta la mobilità fisica e la disponibilità economica dei miei ex concittadini Yugo, al momento di rispondere alla domanda da dove vengo, Trieste, assisto ad una vasta gamma di esclamazioni che subito si tramutano in nostalgici sospiri:

– Ah, Trieste! Una volta anche noi potevamo andarci, a fare lo shopping a Trieste… Ma esiste ancora Ponterosso?

Ho nitide le facce dei miei interlocutori nonostante il fatto le località sono troppe… Prendiamo per esempio la signora receptionist dell’hotel Kazina nel centro di Belgrado, la quale nello sfogliare il mio passaporto e notando il luogo di provenienza, si sciolse in confidenze private:

– … quelli erano tempi! Io a dir il vero volevo viaggiare altrove, andare a Firenze, Roma, Parigi, ma mio marito: Trieste! Solo Trieste. Ci siamo stati molte volte, ricordo la città, le scarpe comprate da Principe, poi il Ponterosso… Com’è ora Ponterosso?

Tante domande e ricordi simili dappertutto. L’oste dell’omonimo ristorante a Polace, sull’isola di Mljet, al tempo allievo della prestigiosa scuola alberghiera di Opatija, ricorda come ogni momento libero della sua permanenza sul litorale istriano, assieme al gruppetto degli altri colleghi, lo sfruttava correndo in macchina a Trieste, anche solo per bere un caffè, passeggiare nelle vie centrali, comperare la mortadella, scrutare le offerte di ‘straze’ in Ponterosso.

Oppure, un lavoratore stagionale, albanese del Kosovo, che ho incontrato sempre sulla lontana Mljet, nella località di Babine kuće, che seguiterà a venire puntualmente ogni mattina a prendere il caffè sulla nostra terrazza solo per poter parlare in italiano, per parlare di Trieste, del Carso, degli agriturismo che conosceva come le proprie tasche, dove ha lavorato e dove sperava arditamente di tornare. Neppure nei suoi racconti gli aneddoti legati allo shopping triestino erano sbiaditi.

O Ismet, l’artigiano della Baščaršija che nelle vie strette del Kazandžiluk batte ogni mattina le džezve e i piatti in rame, pure lui ricorda i viaggi a Trieste e le soste obbligatorie al Ponterosso, ma anche i luoghi dove poi la merce veniva rivenduta a Sarajevo. E proprio a questa città è legata la storia che più delle altre mi ha commosso per il profondo significato, mai eroso, su cosa per noi, cittadini jugoslavi, rappresentavano Trieste e il Ponterosso. E, come questa memoria si è mantenuta nel tempo arricchendosi di nuovi simbolismi. Lo aveva raccontato alla Carovana della Pace, un autobus pieno di giovani – e meno giovani – triestini e di altri cittadini della Regione, Hasan, l’ex generale dell’Armata jugoslava arruolatosi nelle forze di difesa della città tradita, martoriata e isolata dal mondo per mille e una notte durante l’assedio serbo dell’ultima guerra barbara. Al tempo, solo una galleria scavata sotto la pista dell’aeroporto controllato dalle forze NU collegava la città con il territorio libero in mano alle forze bosniache. Si trattava di un respiro vitale che permetteva ai cittadini di mantenere il contatto con il mondo, di fuggire dall’inferno, per chi era troppo debole per resistere nella città, chi era vecchio, malato, ferito. E, dalla direzione opposta, attraverso lo stesso tunnel entravano in città i beni necessari per la sopravvivenza, cibo, medicinali, tabacco, caffè, nafta, qualche articolo “di lusso”. Nelle immediate vicinanze del tunnel, alle pendici del monte Igman, i prati divennero un improvvisato bazar disteso sull’erba, sul fango, sulla neve, un mercato misero che alla popolazione assediata di Sarajevo sembrava il regno di bengodi. Questo mercato nero sorto in piena guerra, lo hanno chiamato Ponterosso. La metafora della salvezza e della presenza di un mondo al di là della penuria e della sofferenza, al riparo dalle granate,che continuava a resistere e alimentarsi di nuovi significati traendo forza da un’esperienza vissuta, promettente, di pace e di benessere ormai cancellati.  […]

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